Gli studi confermano una buona disponibilità degli italiani rispetto agli altri europei a modificare le proprie scelte per ragioni di sostenibilità. Nel caso della carne, le alternative sono viste ancora con fatica e la normativa è ancora lontana dalla chiarezza necessaria.

Il settore alimentare è sempre in rapido movimento e muta seguendo i cambiamenti della società, delle abitudini alimentari e della tecnologia. Oggi è lo stesso modello produttivo, in cui le proteine animali rappresentano il principale contributo alle emissioni, a essere messo in discussione. Nel frattempo, sul lato dei consumatori, sono in atto cambiamenti delle scelte alimentari per ragioni di sostenibilità ambientale e attenzione alla salute. Il punto da cui partire per ogni riflessione su questo tema sono le raccomandazioni del CREA, che non suggerisce di evitare la carne, ma di farne un uso che rispetti le linee guida della salute: ossia un consumo senza eccessi.

Questi temi sono stati al centro di un talk di Alimentipiù moderato dalla tecnologa alimentare Serena Pironi, durante il quale la dirigente di ricerca del CREA Alimenti e Nutrizione, Laura Rossi, ha illustrato i dati emersi da una recente ricerca sulle fonti proteiche alternative realizzata proprio dal Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria. Lo studio del Crea, focalizzato sulla sostenibilità alimentare, ha coinvolto 800 persone tra i 18 e i 54 anni, rappresentative della popolazione italiana sia a livello geografico che economico. Tre i focus indagati, diversi fra loro ma consequenziali: lo stato delle conoscenze del consumatore, la sua disponibilità al consumo di proteine alternative alla carne e, ultimo ma non meno importante, la propensione al cambiamento delle proprie abitudini alimentari per ragioni ambientali.

La buona volontà degli italiani

Poco meno di un italiano su due (il 44%) è d’accordo con l’affermazione che si debba fare attenzione alle scelte alimentari perché hanno conseguenze anche sull’ambiente. Tuttavia, una simile percentuale di persone dichiara di non volere imposizioni o indicazioni troppo “stringenti”. A dimostrazione di una forte resistenza rispetto a sistemi impositivi quando si parla di alimentazione. 
La ricerca fa emergere elementi positivi e negativi. Tra questi ultimi c’è ad esempio che solo il 17% delle persone dichiara che le proprie abitudini alimentari influenzano negativamente l’ambiente. Questa “auto-presunzione di innocenza” è mitigata da una dichiarata volontà di intervenire attivamente sui propri comportamenti. In primis (per il 79% dei rispondenti), la disponibilità a ridurre lo spreco di cibo in casa, adottando misure anti-spreco. Un dato che conferma come i comportamenti alimentari degli italiani siano migliori e più virtuosi rispetto a quelli di molti altri paesi europei.
C’è poi la disponibilità da parte del 73% di acquistare prodotti di stagione e quella di circa il 63% di mangiare cibi vegetali, nonostante non siano sempre graditi. Un ulteriore elemento positivo è che oltre la metà degli italiani (il 60%) si dichiara disponibile a cambiare le proprie abitudini alimentari nel momento in cui si accorgesse effettivamente che non fossero rispettose dell’ambiente. 

Laura Rossi latte più

Passando al fulcro dello studio, la ricerca si è concentrata sulla propensione a ridurre il consumo di carne rossa (manzo, agnello, maiale) per ragioni ambientali. Molti lo hanno già fatto. Il 51% ha ridotto i propri consumi personali. Il 27% invece non lo ha fatto: sono quei consumatori che, per le ragioni più diverse, non sono disponibili a cambiare le proprie consolidate abitudini alimentari. Esiste poi un ulteriore 10% di persone dai buoni propositi che non ha ancora ridotto il proprio apporto di carne, ma ritiene che lo farà in futuro. E i vegani/vegetariani? Dalla ricerca sarebbero il 4% a cui bisogna aggiungere un altro 7% che ha effettivamente smesso di mangiare carne rossa senza essere diventato vegetariano/vegano.  

Le alternative e la resistenza al cambiamento

Ma quali soluzioni alternative alla carne sono accettate dai consumatori italiani? 
A specifica domanda, le risposte, come era facile immaginare, sono le più varie: legumi, uova, pesce, formaggi, frutta secca. Allo stesso modo non può stupire che la ricerca confermi una forte resistenza da parte dei consumatori italiani verso i sostituti della carne, come la carne vegetale senza OGM (rifiutata dal 47%), la carne sintetizzata in laboratorio (dal 61%), e quella derivante da insetti (67%). 
D’altronde nella cultura alimentare italiana la carne ha sempre avuto un ruolo di primaria importanza. Infatti, ben il 53% è convinto che sia necessaria per avere una dieta completa; il 40% considera la carne fondamentale per poter parlare di dieta bilanciata. Altri, il 34%, la considerano insostituibile nella propria alimentazione. Tutto questo nonostante le evidenze confermino che è possibile avere una dieta equilibrata utilizzando altri prodotti in alternativa. 
Il BEAU, un istituto europeo che si occupa di educazione all’alimentazione, ha svolto un interessante studio di approfondimento sulla accettazione della carne sintetica e di quelli a base di insetti a livello europeo. L’analisi dei dati fatta dalla dottoressa Rossi ha permesso di scoprire che le differenze tra i nostri comportamenti e quelli dei nostri vicini, non sono così marcate come sarebbe stato lecito attendersi. La differenza maggiore con alcuni Paesi del nord riguarda la differente accettazione degli insetti che noi, così come i greci, tendiamo ancora a rifiutare.
La resistenza al cambiamento, quando si tratta di abitudini alimentari consolidate, è cosa nota e risaputa. I cambiamenti di questo genere di comportamenti richiedono tempi lunghi, necessitano anni, passaggi generazionali e culturali: basti, come esempio oggi molto evidente, come gli anziani difficilmente accettino il sushi nella propria alimentazione che è invece diventata una pratica comune per tutti i più giovani.
Ma se c’è un tratto distintivo, che ci distingue dagli altri Paesi, è la maggiore disponibilità a diminuire il consumo di carne. Un dato confermato dall’alto numero di persone che questa scelta l’ha già fatta, nonostante la presenza di quello zoccolo duro che non intende assolutamente modificare il proprio consumo, né per ragioni di salute, né per ragioni ambientali.
In conclusione, la carne resta un elemento chiave per l’alimentazione degli italiani. Le raccomandazioni per la salute vengono seguite con una certa attenzione. Le alternative sono viste ancora con fatica, con maggiore accettazione quelle a base vegetale, meno quelle innovative anche se naturali come alghe e insetti.

Cosa dicono le leggi

Le scelte alimentari non dipendono solo dalla volontà delle persone o dal contesto culturale, ma anche da quello normativo. Soprattutto quando l’innovazione svolge un ruolo importante come nel caso dei prodotti alternativi alla carne, è importante capire quale sia oggi lo stato dell’arte per quanto riguarda le leggi che regolano questo settore. Sul tema è intervenuta la dottoressa Chiara Marinuzzi dello Studio Forte segnalando la complessa situazione italiana.

Marinuzzi
Il punto di partenza sottolineato dall’avvocato riguarda un’importante sentenza della Corte di Giustizia che nel 2017 ha messo un punto fermo nel settore delle denominazioni di prodotti quale latte, crema di latte o panna, burro, formaggio o yogurt disponendo che queste denominazioni fossero prerogativa esclusiva dei prodotti di origine animale. Questo ha garantito ai produttori condizioni di concorrenza leale e ai consumatori la corrispondenza del prodotto nominato in questo modo con prodotti di qualità. Allo stesso modo la Corte di Giustizia ha stabilito che la dominazione latte e quelle relative ai prodotti lattiero-caseari non possono essere impiegate legittimamente per designare prodotti esclusivamente di origine vegetale. È stata prevista una eccezione solo per un elenco di prodotti elencati specificatamente e che godono di una deroga ad hoc perché “la loro natura esatta è chiara per uso tradizionale e/o quando le denominazioni sono chiaramente utilizzate per descrivere una caratteristica del prodotto”. Alcuni esempi spiegano bene cosa abbia inteso il legislatore: latte di mandorla, burro di cacao, latte di cocco e così via.

La carne e le pratiche scorrette

Carne shutterstock 2477698921Passando invece alla questione “meat sounding”, l’avvocato ha spiegato che questa espressione non riguarda l’utilizzo della denominazione “carne” quando si ha a che fare con prodotti vegetali, come pensano alcuni, ma nei casi di termini che fanno esplicitamente riferimento a caratteristiche tipiche della carne, come ad esempio le parole “bistecca”, “salsiccia, “scaloppina”, e anche lo stessa e assai diffusa “burger”, quando quello che viene reclamizzato è in realtà un prodotto vegetale e che non apporta le proteine della carne. Data la complessità della materia, nel corso del tempo ci sono state molte proposte e richieste di interventi sulla normativa, sempre respinti. Uno dei più noti è del 2020 ed ha riguardato il tentativo di far sì che le denominazioni utilizzate per i prodotti a base di carne e le preparazioni di carne, come quelle elencate poco sopra, fossero riferite “esclusivamente ai prodotti contenenti carne”. Alla base della proposta c’era la necessità di salvaguardare il settore della carne da pratiche commerciali ingannevoli e scorrette che con facilità utilizzassero ad esempio la parola salsiccia per alimenti senza carne, un tentativo di difesa analogo a quanto fatto in passato con successo per i prodotti lattiero-caseari, come si diceva all’inizio. 
Ma perché nel caso della carne tutti gli emendamenti sono stati respinti e non si è raggiunta la chiarezza del mondo del latte? La spiegazione dell’avvocata Marinuzzi, è che nel caso dei prodotti lattiero-caseari esiste un regolamento che espressamente definisce questi prodotti, cosa che manca invece nel caso della carne, impedendo di raggiungere facili accordi condivisi.

Un pasticcio all’italiana

Ma l’esigenza di salvaguardare e chiarire il settore della carne ha portato inevitabilmente ad alcuni importanti passaggi normativi. Il più significativo è la legge 1° dicembre 2023, numero 173, recante “Disposizioni in materia di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti, a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animai vertebrati nonché di divieto della denominazione di carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali”. L’articolo 2 prevede con nettezza il divieto di produrre, esportare, somministrare e distribuire queste fattispecie di alimenti. Per quanto riguarda i termini vietati, l’articolo 3 specifica che il coinvolgimento comprende sia la parola carne, ma anche riferimenti a specie animali, così come le terminologie tipiche della macelleria, della salumeria (e anche della pescheria).
Quello che è ammesso è la possibile aggiunta ai prodotti di origine animale di proteine vegetali, aromi o altri ingredienti. Infatti, una nota importante specifica che i divieti non si applicano nel caso in cui le proteine animali sono prevalenti nel prodotto che contiene anche proteine vegetali e purché non si induca nell’errore il consumatore sui contenuti (anche nel caso di combinazioni di prodotti di origine animale con altri prodotti alimentari che non sostituiscono e non sono alternativi a quelli di origine animale).
Come troppo spesso accade in Italia, alla legge avrebbe dovuto seguire un cosiddetto “decreto attuativo” con l’elenco preciso delle denominazioni vietate che poi non è stato mai emanato.
Tuttavia, la legge ha previsto delle sanzioni che sono quindi operative. E non si tratta di misure “leggere”. In particolare, a seconda della gravità appurata e della durata dell’attività giudicata illecita, i produttori colpevoli rischiano sanzioni amministrative da un minimo di 10mila euro fino ad un massimo di 60mila (o del 10% del fatturato complessivo annuo se superiore a 60mila, e fino ad un massimo di 150mila euro). È poi ovviamente prevista la confisca dei prodotti giudicati illeciti, il divieto successivo di finanziamenti e supporti di vario genere pubblici e di enti statali da uno a tre anni e anche la stessa chiusura dello stabilimento per lo stesso periodo di tempo.
Tuttavia, come è noto, la Commissione Europea che avrebbe dovuto vagliare il provvedimento l’ha invece archiviato all’inizio del 2024, spiegando che la legge era stata pubblicata anticipatamente rispetto al periodo previsto e creando una situazione molto confusa e interpretazioni molto differenti. Di fatto, come ha ricordato la dottoressa Marinuzzi, la legge così com’è è inapplicabile nonostante il Ministero abbia cercato di darne una interpretazione diversa.
Quindi, cosa può accadere oggi? Allo stato dei fatti, oggi i produttori possono incorrere nell’accusa di pratica commerciale scorretta, con sanzioni che sono quelle tipiche della pubblicità ingannevole, che vanno da poco più di 3mila ad un massimo di 18mila euro. Cifre molto lontane da quelle previste dalla legge di cui abbiamo parlato. C’è anche la possibile applicazione del Codice di consumo che prevede le pratiche commerciali sleali con induzione in errore del consumatore. L’Autority garante del mercato può valutare se ci sono questi estremi per prodotti con etichette “ingannevoli”. In questo caso torniamo a sanzioni che in ambito ipotetico possono raggiungere livelli altissimi, milionari in casi ipotetici estremi, oltre a interventi inibitori per bloccare le pratiche giudicate scorrette. Oltre alla “moral suasion”, ossia l’invito all’operatore di eliminare quelle informazioni che possono sviare il consumatore.
Ma una legge ad hoc ancora manca.

di David Migliori

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