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È un formaggio semiduro a pasta filata, stagionato, prodotto solo con latte crudo vaccino. Le zone di allevamento delle bovine, di produzione e stagionatura sono delimitate ad alcuni comuni di Napoli nella Penisola Sorrentina e nei Monti Lattari: Agerola, Casola di Napoli, Castellammare di Stabia, Gragnano, Lettere, Massa Lubrense, Meta, Piano di Sorrento, Pimonte, Sant’Agnello, Sorrento, Santa Maria La Carità, Vico Equense.

Il latte deve provenire, per almeno il 20%, da bovini tipo genetico autoctono (TGA) Agerolese, il cui standard fu presentato al Ministero dell’agricoltura e delle foreste nel 1952, e per la quota restante da bovini di razze diverse (Frisona, Bruna Alpina, Pezzata Rossa, Jersey, Podolica e Meticci locali) allevate esclusivamente nei comuni dell’areale DOP. Secondo diverse fonti storiche, sembra che il Generale Avitabile, avventuriero e appassionato allevatore, tornato dall’Inghilterra ad Agerola, suo paese natale, nel 1845 introdusse bovini di razza Jersey che successivamente entreranno a far parte del nucleo fondatore della razza Agerolese. L’Agerolese è fra le razze bovine autoctone in via di estinzione del Meridione. L’allevamento dei bovini sui Monti Lattari e nella Penisola Sorrentina, risale al 264 a.C., grazie ai picentini, primi abitanti della zona, deportati dalle Marche dai romani, che trasformarono i boschi in terreno coltivabile, incominciando l’attività agricola e di allevamento di animali domestici. Soprattutto di bovini ad attitudine lattifera, tanto che i Monti furono denominati “Lactaria Montes”. La prima descrizione dettagliata della razza risale al 1909, ad opera del dott. E. Mollo: “una vacca da latte… da un metro e trentacinque ad un metro e quaranta, qualcuna oltrepassa pure questa altezza, il suo peso vivo varia dai tre quintali e mezzo ai quattro quintali; ... il mantello è scuro con striscia più chiara sulla schiena... i caratteri della buona lattaia sono: testa regolare e ben formata, corna sottili e di regolare lunghezza, sguardo docile, pagliolaia poco sviluppata, dorso leggermente insellato, spalle e torace alquanto ristretti, grande sviluppo dell’addome, estremità piuttosto corte e robuste, mammelle sviluppatissime, pelle non molto sottile con abbondanza di connettivo sottocutaneo” considerandola come “... una buona lattaia dà dai diciassette ai diciotto litri di latte al giorno... nella buona stagione, quando abbonda il foraggio verde ed il clima incomincia a diventar più mite il latte diventa più aromatico...”.

Secondo il disciplinare, l’alimentazione delle bovine deve essere rappresentata per almeno il 40% della sostanza secca da foraggio e/o frascame. Quest’ultimo è il prodotto ottenuto dalla potatura delle colture arboree (agrumi, olivo, etc.) e dei boschi di caducifoglie (castagneti cedui, etc.) e dalla pulizia dei terrazzamenti proveniente dall’area di produzione. Questo viene integrato con foraggi che dovranno provenire da colture di cereali da semi (avena, orzo, grano) e/o dall’affienamento di prati stabili naturali e di colture di graminacee o leguminose da foraggio. I foraggi costituiscono soltanto l’integrazione all’alimentazione proveniente dalla zona delimitata che attribuisce le caratteristiche peculiari al latte delle bovine. 

Storia

Nel disciplinare di produzione si legge che nella relazione “Caci, Burro, Strutto, Uova, Olii alla esposizione di Parigi del1’878”, Raffaele De Cesare, membro della giuria internazionale, fa una accurata descrizione dei prodotti rappresentanti dell’attività casearia del’'Italia di fine ’800, sottolineando come dalla forma del caciocavallo in alcune regioni dell’Italia meridionale si è preferita quella a palla del provolone. Nei Monti Lattari - Penisola Sorrentina, in particolare, è storica la produzione di caciocavallo e provolone, tanto che nei primi del ’900 da questo territorio venivano esportati dai 300 ai 400 quintali di provolone al mese. La scelta di produrre prevalentemente prodotti stagionati dipendeva dalla necessità di commerciare il formaggio a Napoli via mare: un viaggio lungo e faticoso. I provoloni, trasportati a dorso dei muli fino alle spiagge, venivano caricati su imbarcazioni a remi. I contadini, per ripararsi dall’umidità del mare e della notte, indossavano un grande mantello simile al saio indossato dai monaci. Una volta giunti a Napoli, la gente che lavorava al mercato presso il porto iniziò a chiamare il trasportatore, il Monaco, e il suo formaggio, Provolone del Monaco.

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Il processo di trasformazione

Secondo il disciplinare di produzione, il latte destinato alla trasformazione del Provolone del Monaco DOP non deve essere sottoposto a una temperatura superiore a 40°C o a un trattamento avente effetto equivalente.

La coagulazione del latte deve essere ottenuta per via presamica per circa 40-60 minuti aggiungendo caglio in pasta di capretto o caglio naturale liquido di vitello da soli o in combinazione tra loro, con almeno il 50% di caglio in pasta di capretto, riscaldandolo a 34-42°C.

Quando la cagliata ha raggiunto la consistenza voluta, dopo alcuni minuti, si procede alla rottura fino a ottenere grumi molto piccoli delle dimensioni dapprima di una nocciola e successivamente di un chicco di mais. Si lascia riposare il tutto per circa 20 minuti.

La cagliata deve essere poi riscaldata, così da avere nella massa una temperatura di circa 48-52°C, e lasciata prima riposare fino a un massimo di 30 minuti, curando che la temperatura non si abbassi al di sotto dei 45°C, successivamente deve essere estratta dal siero e trasferita in teli di canapa o cestelli forati in acciaio per la maturazione.

Dopo che le prove di filatura, a mano in acqua calda, hanno dato esito positivo in termini di elasticità e resistenza, si deve procedere al taglio della cagliata in fettucce di dimensioni variabili.

Seguono le operazioni, da effettuarsi manualmente, di filatura e modellazione della massa con acqua a 85-95°C in forme dalle pezzature stabilite dal disciplinare.

Il rassodamento avviene per immersione in acqua fredda e la salatura in salamoia satura per 8-12 ore/kg di prodotto.

I formaggi ottenuti, legati in coppie, appesi su apposite incastellature, devono essere lasciati stagionare per maturazione lattico-proteolitica, prima a temperatura ambiente di asciugamento dai dieci ai venti giorni e quindi in ambiente a temperatura fra gli 8 e i 15°C per un periodo non inferiore ai sei mesi, sottoposto in questo periodo esclusivamente a operazioni di lavaggio e pulitura delle muffe ed eventuale oliatura (olio extra vergine di oliva DOP - Penisola Sorrentina). 

Le caratteristiche

  • Stagionatura: almeno centottanta giorni (sei mesi), con una resa massima di 9 kg per ettolitro di latte trasformato;
  • Forma: di melone leggermente allungato ovvero di pera senza testina con un peso minimo di 2,5 kg e massimo di 8 kg;
  • Crosta: sottile di colore giallognolo con toni leggermente scuri, quasi liscia con leggere insenature longitudinali in corrispondenza dei legacci di rafia usati per il sostegno a coppia che suddividono il Provolone in un minimo di 6 facce;
  • Pasta: di colore crema con toni giallognoli, elastica, compatta, uniforme e senza sfaldature, morbida e con tipiche occhiature a “occhio di pernice” di diametro variabile fino a 5 mm, con eventuale presenza di sporadiche occhiature di diametro maggiore, fino a 12 mm, più abbondanti verso il centro della massa;
  • Contenuto in grasso sulla sostanza secca: non inferiore al 40,5%;
  • Sapore: dolce e butirroso e un leggero e piacevole gusto piccante. In particolare, dopo 7-8 mesi il Provolone tenderà a ingiallire ulteriormente, ispessendo la crosta e assumendo un sapore via via più piccante e un aspetto della pasta più consistente, anche se ancora abbastanza morbida e sempre privo di sfaldature;
  • Etichettatura: le forme devono recare impresso termicamente su ogni faccia con figurazione lineare o puntiforme, il contrassegno con la dicitura “Provolone del Monaco”, di colore nero e l’indicazione di un numero di identificazione attribuito a ogni produttore inserito nel sistema di controllo.

Martina Halker Esperta in tecnologie alimentari e divulgatrice scientifica

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