Guerra in Ucraina e rincari energetici spingono i costi correnti per la produzione della frutta e della verdura italiane che arrivano anche a raddoppiare (fino a +119%) con un impatto traumatico sulle aziende agricole.

È quanto emerge dall’analisi di Coldiretti su dati Crea divulgata a Fruit Logistica di Berlino la principale fiera internazionale di settore dove è presente il Presidente della Coldiretti Ettore Prandini per incontrare gli operatori italiani.

“L’impennata dei costi di produzione ha colpito tutte le fasi dell’attività aziendale,” rileva Coldiretti, “dal riscaldamento delle serre ai carburanti per la movimentazione dei macchinari, dalle materie prime ai fertilizzanti, con spese più che raddoppiate, fino agli imballaggi. Gli incrementi non hanno risparmiato neppure la plastica per le vaschette, le retine e le buste, la carta per bollini ed etichette, il cartone ondulato come il legno per le cassette, mentre si allungano anche i tempi di consegna. Aumenti che sono stati per la maggior parte assorbiti dalle imprese agricole stesse, incrementando le difficoltà del settore, con quasi un produttore di ortaggi su cinque (19%) che ha addirittura lavorato in perdita”.

“Ma a pesare è anche la concorrenza sleale delle produzioni straniere,” continua Coldiretti, “con l’ortofrutta Made in Italy stretta nella morsa del protezionismo da un lato e del dumping economico e sociale dall’altro”.

“Le pere cinesi Nashi, ad esempio, arrivano regolarmente nel nostro Paese,” rivela Coldiretti, “ma quelle italiane non possono andare in Cina perché non è stata ancora concessa l’autorizzazione fitosanitaria. E finché non è chiuso il dossier pere non si può iniziare a parlare di mele, perché i cinesi affrontano un dossier alla volta. Nonostante l’accordo Ceta tra UE e Canada, non possiamo esportare i pomodorini nel Paese dell’acero, perché i canadesi vorrebbero che fossero trattati con il bromuro di metile che da noi è vietato. Ma porte sbarrate anche ai kiwi in Giappone perché non è ancora completato il dossier fitosanitario aperto dal 2008, in barba all’accordo di libero scambio Jeta siglato dall’Unione Europea con il governo nipponico”.

“Alle barriere commerciali si aggiungono i danni causati dalla concorrenza sleale,” denuncia Coldiretti, “con quasi 1 prodotto alimentare su 5 importato in Italia che non rispetta le normative in materia di tutela della salute e dell’ambiente o i diritti dei lavoratori vigenti nel nostro Paese, spesso spinto addirittura da agevolazioni e accordi preferenziali stipulati dall’Unione Europea. Un esempio sono le nocciole dalla Turchia, su cui pende l’accusa di sfruttamento del lavoro delle minoranze curde. Ma ci sono anche l’uva e l’aglio dell’Argentina e le banane del Brasile gravati da pesanti accuse del Dipartimento del lavoro Usa per utilizzo del lavoro minorile ma con i quali l’UE ha comunque avviato l’accordo commerciale di libero scambio Mercosur".

“È necessario che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l’ambiente, il lavoro e la salute, secondo il principio di reciprocità,” ha affermato il Presidente della Coldiretti Ettore Prandini.

 

Fonte: coldiretti.it
Foto: shutterstock

 

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