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Se chiedessimo a un bambino di disegnare ciò che minaccia l’ambiente, con ogni probabilità dipingerebbe il colore di prati, fiumi, mari offuscato dal grigio fumo di ciminiere e gas di scarico. Perché nell’immaginario collettivo, è questa l’idea maggiormente radicata. Tuttavia, è l’esigenza di produrre sempre maggiori quantità di cibo, per una popolazione in continuo aumento, che rappresenta una delle maggiori criticità per il pianeta.

Le sfide ambientali poste dall’agricoltura, come il consumo di risorse idriche, l’inquinamento generato da fertilizzanti e reflui, e la riduzione della biodiversità dovuta all’estensione delle aree produttive a scapito di foreste e prati, sono enormi e diventeranno sempre più pressanti man mano che cercheremo di soddisfare il crescente bisogno di cibo in tutto il mondo. Produrre di più, con ciò che abbiamo già, senza intaccare ulteriormente le risorse del pianeta è un imperativo.
Una delle risorse più limitate è l’acqua, di cui la produzione alimentare è ovviamente avida. La maggior parte degli alimenti che consumiamo è fatta prevalentemente di acqua! Considerata una risorsa rinnovabile, in realtà la quantità di acqua dolce disponibile diminuisce ogni anno, a causa della sua scarsità, per sovra utilizzo o siccità, e dell’incremento del suo inquinamento che ne rende difficile la depurazione.

Un trattamento innovativo

Nel corso del recentemente concluso settimo convegno internazionale SIMTREA sulla biodiversità microbica, una ricercatrice del KAUST (King Abdullah University of Science and Technology) ha proposto un nuovo approccio per poter incrementare la disponibilità di acqua pura a partire da acque reflue. In esse possono essere presenti un’infinità di contaminanti, sia biologici che chimici e fisici. Il trattamento con cloro per la loro disinfezione può produrre concentrazioni sub-letali di sottoprodotti con effetti mutageni sui microrganismi presenti, in grado quindi di acquisire potenzialmente nuovi tratti genetici funzionali, incluso quello della resistenza agli antibiotici.

Il trattamento con bioreattori a membrana che combinano trattamenti biologici e chimici alla separazione fisica della materia organica, rimuovendo la biomassa, permette di ridurre la possibilità di trasformazione microbica. Tuttavia, i bioreattori aerobici sono costosi in termini energetici, di accumulo di scarto (il fango, o biomassa) e di impoverimento degli elementi dell’acqua trattata che potrebbero ancora essere utili per l’impiego in agricoltura (fosfati e ammonio).

La ricerca scientifica ha dimostrato che con la versione anaerobica dei bioreattori a membrana si permette la conversione del carbonio organico in metano (fonte energetica), limitando il dispendio energetico e la produzione di fanghi, si ottiene acqua pulita e con i reflui si incrementa lo sviluppo di alcune coltivazioni.

In un momento storico in cui i fertilizzanti sintetici hanno raggiunto prezzi notevoli, a causa dell’indisponibilità delle materie prime per produrli (uno di questi è il metano che il conflitto Russo-Ucraino ha reso inaccessibile), e il letame organico ottenuto da maiali, cavalli, bovini e persino biosolidi umani è diventato un prodotto tanto ambito quanto, ahinoi, inquinante, l’uso di effluenti ottenuti da acque reflue trattate con bioreattori anaerobici potrebbe essere una soluzione utile per il pianeta e per l’aumento delle rese produttive alimentari.

Ancora una volta è chiara l’importanza della ricerca, anche per poter permettere a tutti in futuro di poter disporre di un buon bicchiere di acqua pura.

di Benedetta Bottari 
Professore associato Microbiologia degli Alimenti, Università degli studi di Parma

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